Forse non nella fede, ma certo per la fede
Una parte importante della vita di un prete consiste nell’affidare al Signore uomini e donne che muoiono; stare loro vicino, anche negli ultimi istanti, pregare con i loro familiari, confortarli, donando loro la misericordia di Dio, senza giudicare. Mi è capitato di farlo spesso, di pregare per tutti, anche per i suicidi e di pregare, anche, per chi ha rifiutato la misericordia di Dio. Per questo mi sento di dire: possa davvero il Signore – che conosce il mistero delle anime fino alle loro ultime ferite – accogliere Michela Murgia nella sua casa. Prego per lei. Con affetto. E le sono anche grato. Nelle strumentalizzazioni, infatti, e nell’imbarazzo che permette, sull’altare di una chiesa e dopo una liturgia, qualunque cosa, è emersa l’immagine di un cattolicesimo bifronte: da una parte, c’è il volto di chi crede alla verità della storia di fede che raccorda, risalendo all’indietro, il cammino che va da Francesco a Pietro e, dall’altra, il volto di chi crede che, dal Concilio di Gerusalemme in poi, sia tutto da rifare…da lui. C’è chi ha la vocazione del salvato (da Cristo nella Chiesa) e chi quella del salvatore (di Cristo e della Chiesa). Io mi sforzo di appartenere – senza merito – alla prima categoria, perché penso a tutte le figure che, in questo unico cammino, hanno illuminato la bimillenaria traversata della barca di Pietro (da San Benedetto a San Francesco e Santa Chiara, da San Filippo Neri a San Giovanni Bosco, da san Giovanni Paolo II a Santa Madre Teresa di Calcutta), penso a loro e penso che non l’hanno mai pensata come Michela e i suoi adulatori postumi: quegli uomini e quelle donne mi confortano con la loro fedeltà, perché non posso essere confortato, semplicemente, dalla mia e mi concedono la grazia di sentirmi un peccatore-perdonato piuttosto che un giusto che non ha bisogno di perdono, costantemente e per principio, in assenza di peccato. Stare idealmente e con pudore dalla parte di quelli che hanno amato Cristo nella Chiesa, infatti, è stare dalla parte dei pubblicani e dei peccatori che conoscono il peso dei loro sbagli al punto di poterne chiedere perdono e non ritrovarsi tra chi si sente perfetto, senza bisogno di conversione, perché qualunque cosa “io” voglia o faccia non è peccato. Per averci aiutato a far emergere questa dialettica ecclesiale, ringrazio Michela e la ritengo, con me, una pellegrina di questo tempo, bisognosa, come me, di misericordia e perdono. Questo, forse, si poteva dire alle esequie, invece di stendere il tappeto liturgico per la passerella dei benpensanti del politicamente corretto. Per fare il parroco in certe zone ci vuole coraggio e nessuno fa sconti quando la fede si “inchina” ai potenti di quartiere. Ci vorrebbe coraggio, anche, per opporsi all’invasione degli spazi sacri da parte della violenza culturale e politica; coraggio per dire la verità con pietà ma senza sconti, perché non c’è misericordia nella dissimulazione; coraggio per non inchinarsi ai ricchi e ai potenti di questo tempo. Il rispetto umano non può sollevarci da questa responsabilità. Non ho niente, quindi, contro Michela, sorella non so se nella fede, ma, certamente, per la fede. Ha chiesto il funerale cattolico e lo apprezzo: mi dà gioia e speranza. Michela, però, è passata tra noi, con la forza delle sue battaglie. Oggi, rimangono quelle e, in quelle, credo, bisognerà rimanere con coraggio, perché non sopravvivono solo le sue ragioni, ma anche quelle che, a esse, erano e sono opposte. Sono sincero. Al di là dei contenuti specifici dei suoi interventi, – spesso lontani dal magistero autentico della Chiesa, ma anche da un dialogo sincero con esso – quello che mi ha sempre allontanato da lei è stato il suo intellettualismo che mi appariva duro e che la portava ad appiattire ogni valore, specie quello familiare, sull’apologetica dell’io. Non mi piaceva lo stile aggressivo con cui trattava gli avversari quasi come nemici da etichettare in maniera precritica; e, certo, non posso condividere che i modelli di vita da lei ritenuti più progrediti, si sposino perfettamente con le dinamiche del mondo del consumo, che vede gli uomini e le loro relazioni come materia fluttuante nella storia: un’impostazione che non sento vicina né a me e né al Vangelo. Non posso condividere l’aver quasi ignorato, per esaltare la libertà della donna, la dignità della vita nascente e il bisogno di un contesto specifico per la crescita dei figli. Non mi sorprende, però, che, in un tempo imbelle, le sia riconosciuto il fascino della ribellione. Il “carattere”, in un’epoca invertebrata, entusiasma perché ha un gusto esotico. Bisogna riconoscere, però, che si è trattato di una spinta borghese, tendente a esaltare i comportamenti individuali, pretendendo, per essi, il riconoscimento sociale. Questo la Chiesa non lo può né condividere, né approvare, se non vuole dividersi da sé stessa, smentirsi e smentire il Vangelo. La Chiesa annuncia la pienezza dell’umano in Cristo, ponendola in un amore redento e non regredito a una visione pagana; e, questo, mentre apre le braccia e prega per i suoi figli, i più inquieti e lontani. Michela è una donna che, ora, è davanti a Dio. Il Signore saprà curare le sue ferite, valorizzare i suoi meriti, consolare i suoi dolori e addolcire il suo tratto facendole sentire il palpito più profondo della sua anima. Spero e prego che perdoni i suoi peccati, come spero e prego che perdoni i nostri. Siamo stati sicuramente fratelli per la fede che ho conosciuto nella Chiesa e che, indegnamente, mi sforzo di vivere, perché, pur non condividendo il suo approccio a molti temi e l’incarnazione nella sfera pratica di alcuni modelli, io non posso non sentire l’appartenenza che, a lei e a chiunque altro, in me genera la croce di Cristo. Che ci si possa incontrare in cielo, allora, con uno sguardo di dolcezza reciproca e senza più ribellioni. Continuerò a pregare per lei. Spero, se già arrivata, che incominci a farlo per noi.